Chiese e comunità che accolgono. Le cifre e le storie dei corridoi umanitari.
Un giorno d’estate del 2011, Diya, un bambino che allora aveva poco più di sei anni, giocava a calcio con i suoi migliori amici, Amir, Mohammad e Alì, nella città di Homs, in Siria. All’improvviso mentre calciava il pallone, un bombardamento aereo l’ha colpito, tranciandogli la gamba sinistra, lasciandogli poco più che un moncherino di femore.
Diya ha tredici anni e quest’anno ha frequentato la terza media all’ Istituto Comprensivo «Via Della Tecnica», a Pomezia, poco distante da Roma. E la sua vicenda racconta ora tutta un’altra storia. Quella di chi è atterrato all’aeroporto di Fiumicino con la sua famiglia ed altre famiglie siriane il 29 febbraio 2016, tra i primi a prendere parte al programma dei Corridoi Umanitari dal Libano organizzati dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI), dalla Tavola Valdese e dalla Comunità di S. Egidio. Diya è uno tra le centinaia di bambini che negli ultimi tre anni sono riusciti a lasciarsi alle spalle la guerra, arrivando in Italia in sicurezza e dignità a bordo di un aereo di linea, senza dover affrontare l’inumano, tra le acque del Mediterraneo. Al suo arrivo in Italia, ad aspettarlo, c’era anche una gamba nuova donata dall’associazione Bimbiingamba e realizzata dalla officina ortopedica RTM di Budrio. Una protesi personalizzata di ultima generazione, che permette a Diya di camminare, muoversi liberamente, frequentare la scuola ed avere una vita normale. «L’ingresso di Dia in classe ci ha fatto capire che, al di là della provenienza geografica, della religione e della lingua siamo tutti uguali e abbiamo bisogno solo di amicizia, affetto, solidarietà, comprensione e aiuto e senza di ciò non siamo nulla», questo hanno scritto lo scorso anno i suoi compagni e le compagne di classe, in una lettera che ha vinto il concorso promosso da Mondadori Education: «#Leparolechesiamo, i cittadini che diventiamo». Sempre Diya, invece, nei primi istanti di vita in Italia ha raccontato agli operatori della casa di Campoleone in provincia di Latina gestita dalla Federazione delle chiese evangeliche che lo hanno accolto: «Il giorno della partenza eravamo tutti emozionati. Il viaggio in aereo verso l’Italia è stata l’esperienza più bella della mia vita, era la prima volta che prendevo l’aereo, un sogno diventato realtà».
Già, sembra che i corridoi umanitari contribuiscano a realizzare i sogni. Come quello di Yasser, che nel febbraio del 2017, aiutato da un ufficiale militare, aveva pagato 75mila lire siriane per attraversare il confine tra Siria e Libano, ed era stato costretto ad abbandonare i sogni e gli studi, interrompendo la carriera universitaria, lasciando la città natale, Damasco, dove aveva conseguito la laurea triennale in ingegneria informatica, e, contemporaneamente, lavorava come programmatore. Oggi Yasser ha realizzato il suo desiderio di proseguire gli studi in Italia, a Genova, città dove frequenta dal 2017 il corso di laurea magistrale anche grazie alla sua determinazione; la stessa dimostrata da Meryat, giovane studentessa siriana arrivata anche lei attraverso i corridoi umanitari, che ora frequenta l’Università di Ferrara grazie a una borsa di studio.
«Il nostro destino era quello di salire su una barca. E invece ringraziamo Dio che ha aperto davanti a noi una strada diversa, consentendoci di arrivare in Europa in poche ore, viaggiando in sicurezza e dignità», ci ha confidato una volta Nazem, arrivato in Italia a luglio del 2016 assieme a sua moglie Waad, anche loro fuggiti dalla Siria. Entrambi sono stati supportati dalla chiesa valdese, nel riconoscimento dei titoli di studio e nell’attivazione di tirocini formativi qualificanti, che in seguito sono diventati veri e propri contratti di lavoro; per lui, Nazem, come tecnico specializzato in una azienda di termoidraulica, per lei, invece, Waad, come impiegata presso un asilo nido.
Più in generale, dal febbraio del 2016 ad oggi, grazie ai corridoi umanitari, sono già arrivate in Italia dal Libano oltre 1500 persone, oltre ai circa 500 rifugiati giunti in Francia, Belgio e Andorra. Dunque più di quanto abbiano fatto gli stati europei, tutti insieme, attraverso il meccanismo dei ricollocamenti.